Questa è la storia del piccolo Kun, dell’arrivo di una sorellina, della gelosia e di ciò che ne consegue: la sofferenza, la rabbia, il desiderio di fuga.
Come in opere precedenti Hosoda ci racconta un’evoluzione, con tutte le crisi che ne fanno da inevitabili milestones. Tante cadute: in bicicletta per imparare, nella vita per comprendere e infine accettare.
Lo strumento narrativo è qui il fantastico che irrompe, in ogni momento di rottura, attraverso un metaforico albero di famiglia e che proietta il bimbo attraverso le architetture di uno psichedelico viaggio attraverso le proprie radici, nel passato, fino alle ramificazioni del futuro, entrambe sconosciute.
Kun si incammina, quindi, accompagnato dai propri familiari del passato e del futuro alla scoperta di sé stesso, delle proprie capacità e del proprio ruolo. Attraverso il suo albero geneaologico, che prende così vita, intuisce, con il cuore, il significato delle connessioni che segnano la storia della propria famiglia.
La bravura di Hosoda è nel partire da situazioni banali, come i capricci di un bambino per invitarci in uno spazio costruito ad arte nel quale trovare il rapporto tra genitori, la fatica, le insicurezze, lo stress della conciliazione con il lavoro, il senso di colpa e l’inadeguatezza. Un affresco realistico che pone l’accento in maniera profonda e ampia sul concetto di famiglia.
Non mancano momenti di grande emozione che valgono da soli la visione del film, soprattutto nel finale. Buoni ma non eccezionali il comparto grafico e la colonna sonora.