Le madri che conosco
03/04/2014

Donne-e-lavoro

Le madri che conosco, quelle della mia età, sono quasi tutte laureate. Sono madri che non hanno passato l’infanzia a immaginare l’abito per il loro matrimonio o il nome dei figli che avrebbero avuto. Non soltanto, per lo meno. Le madri che conosco sono donne che hanno studiato e viaggiato. Donne che leggono, che si informano, che fanno acquisti online e pagano i conti al ristorante. Le madri che conosco sono madri che lavorano, se e quando viene loro permesso.

C’è Emme, che ogni giorno attraversa un’intera provincia per entrare in un laboratorio troppo freddo e pieno di sostanze tossiche. Veste un camice che significa molto, per lei, e lavora con una diligenza che conosco fin dai banchi di scuola. Non la pagano. Ma sta imparando tante cose e “magari prima o poi esce un bando e mi assumono, almeno per qualche mese”. Un lavoro normale, stipendiato e in regola, ha smesso di cercarlo da un po’, ma prima o poi dovrà pur ricominciare.

Erre è una brava insegnante, sapeva che questo sarebbe stato il suo mestiere fin da quando era piccola e passava le giornate dall’altra parte della cattedra. Insegna agli adulti, perché trovare un posto in una scuola, soprattutto nella sua terra di emigranti, è poco più che una fantasia. Lavora una settimana sì e tre no, attende ogni volta grappoli di giorni per essere pagata. E intanto continua ad aggiornarsi, perché un’insegnante che si rispetti deve essere una brava studentessa per tutta la vita.

C’è un’altra Emme che è appena rientrata in ufficio dopo la maternità. Quattro mesi, non un giorno di più, perché ha un contratto a progetto ed è già tanto che non abbia perso il posto quando ha annunciato la sua gravidanza. Niente permessi per l’allattamento, niente telelavoro. Solo una neonata svezzata prima del dovuto e una mole enorme di sensi di colpa.

A., invece, un lavoro normale ce l’aveva, da quando aveva 18 anni. Ma l’ha lasciato in un giorno d’inverno per seguire il suo uomo in un’altra regione. Un’emigrazione al contrario, che nel suo caso fa rima con disoccupazione. Chi vuoi che assuma la madre di due figli piccoli, lontana da casa, senza una famiglia su cui contare se i bambini si ammalano o sono in vacanza da scuola?

Di è un poco più grande di me, i suoi figli sono cresciuti in fretta e ormai sono più alti di lei. Quando erano piccoli ha barattato per sempre ferie, aumenti e dignità per un’ora di lavoro in meno ogni giorno, un’ora in più da passare con i suoi bambini. È circondata da maschi che aspettano da quasi quindici anni che lei si scusi per le sue gravidanze. Gli stessi che, al rientro dalla seconda maternità, le fecero sparire la sedia e la scrivania dietro la quale lavorava. Giusto per essere chiari. Per essere sicuri che non osasse riprovarci una terza volta.

C’è Gi, che lavora per una grande azienda. Ha una pausa pranzo interminabile e una figlia piccola che resta al nido fino a tardi. La flessibilità non esiste, quando servirebbe per rientrare a casa prima del calar del sole e correre al parco con la tua bambina per mano. Gi esce di casa molto presto al mattino e rientra quando ormai è buio. Prendere o lasciare, un’altra strada non c’è.

Le madri che conosco lavorano troppo o troppo poco, e lavorerebbero meglio se solo qualcuno le mettesse in condizione di farlo. Quando sono al lavoro, le madri che conosco devono scusarsi perché sono madri, e quando tornano a casa vorrebbero scusarsi perché sono donne che lavorano. Le madri che conosco, invece, non hanno proprio niente da farsi perdonare. Sono loro ad essere in credito di scuse. Scuse che, ovviamente, nessuno presenterà mai.

Fonte: http://unamammagreen.com/